sabato 1 aprile 2017

Combattenti esausti - Parte prima

#nonunadimeno
Esperienze scolastiche a proposito della "sub-cultura" della violenza


Sono anni (precisamente dall'assassinio di Silvia Caramazza) che lavoro con i miei alunni per arginare il diffondersi della "cultura della violenza" ed è inutile dire che i più recenti fatti di cronaca (non solo i femminicidi di Borgo Vercelli e di Pinerolo, ma anche la terribile mattanza di Alatri, ai danni del giovanissimo Emanuele Morganti) hanno provocato in classe accesi dibattiti e discussioni. Ci si indigna e al tempo stesso si cerca di capire.
I ragazzi mi raccontano che risse e violenze sono molto frequenti nei locali notturni. Mi raccontano di pestaggi a cui hanno assistito, di giovani colpiti con furia disumana solo per un'occhiata di traverso, di corpi esanimi oltraggiati con sputi e calci. Di violenze che solo per un soffio, per una fortuita fatalità, non si sono trasformate in tragedia. Mi riferiscono di come gli amici della vittima di turno spesso intervengano per aiutarla, per proteggerla (e - da notare - spesso si tratta di "compagnie" eterogenee, composte da adolescenti italiani, marocchini, albanesi, rumeni... con buona pace di quei giornalisti che vanno sempre alla caccia della "rissa fra bande di etnie diverse") e sono sì increduli di fronte a tanta brutalità - ma non quanto ci aspetteremmo.
Non è vero che tutti i giovani di oggi siano teppistelli alla ricerca della facile trasgressione. Anche questo è un luogo comune che chi lavora quotidianamente come insegnante o educatore sa essere del tutto fasullo. Esistono molti "bravi ragazzi" (come lo erano Emanuele e i suoi amici); ragazzi che ripudiano la violenza e che ricercano (non senza difficoltà) rapporti umani sinceri, che possano aiutarli a contrastare il solipsismo della società iper-tecnologica in cui si sono trovati a vivere. Ragazzi con cui fa piacere parlare e che spesso, durante le lezioni, riescono a strapparti il sorriso. Adolescenti a cui risulta impossibile non affezionarsi. Ragazzi sensibili - eppure rassegnati.
Immagine da Pinterest
La rassegnazione alla violenza e ai comportamenti stereotipati: ecco qual è il vero cancro della nostra modernità.
Prima ancora dei fatti di sangue, delle analisi sociologiche che ne conseguono, ciò che colpisce è l'incapacità delle giovani generazioni di comprendere che i modelli comportamentali diffusi potrebbero essere arginati o modificati da una presa di coscienza collettiva.
I giovani di oggi sono combattenti esausti - e lo sono perché noi adulti abbiamo insegnato loro (con il nostro esempio) che, dopotutto, non vale la pena di lottare per ciò che è socialmente diffuso e accettato - sebbene discutibile.
Abbiamo insegnato ai nostri figli e ai nostri alunni a essere "tiepidi", mentalmente immobili: non li abbiamo stimolati a sviluppare la capacità di analisi, non li abbiamo abituati a ragionare autonomamente sulla base di dati raccolti. Al contrario - attraverso la nostra colpevole accidia - li abbiamo istruiti ad adattarsi, a non andare mai contro "il sistema". Resta nascosto nella tua nicchia e non ti accadrà nulla di male. Mamma e papà ti proteggeranno sempre. Non badare al Male, il Male non esiste... Ecco la litania che ripetiamo loro fin da quando sono piccoli.
Ma il Male esiste - e va affrontato, e combattuto, con le armi dell'intelligenza, della capacità analitica, dell'empatia. Tutte pratiche a cui i nostri "figli" non sono avvezzi. Ecco perché i nostri "bravi ragazzi" rischiano (e lo rischieranno sempre più di frequente) di diventare pecore sacrificali.

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